di Mariateresa Di Pastena
Incontrare Maurizio de Giovanni è un po’ come incontrare Maradona: ogni suo libro è paragonabile ad un goal del “Pibe de oro”. Ha gli stessi occhi verdi del commissario Ricciardi, il suo primo personaggio, che, nel 2005, lo ha reso famoso. La sua voce ricorda quella di Pino Daniele, un altro orgoglio della nostra città… Dopo pochi secondi, però, il suo sguardo e la sua voce reclamano la loro identità, diventano suoi e basta, e si infrangono tutti i paragoni. Il grande scrittore lascia subito il posto all’uomo: semplice, gentile, affascinante, che si racconta con una naturalezza disarmante…
Prima di tutto, tanti auguri! Il 31 marzo è il tuo compleanno, compirai sessant’anni…
E’ vero… Grazie!
Com’è cambiato il tuo rapporto con la scrittura, dal tuo esordio? Cosa rappresentava allora, e cosa rappresenta oggi?
Per me ciò che è importante è la lettura. Il vero talento è nella visionarietà del lettore: lo scrittore inventa una storia ogni volta che legge. Con la scrittura non ho dei rapporti specifici, per me è uno strumento, non un fine; piuttosto sono importanti i miei personaggi, che ho imparato a conoscere un po’ alla volta, successivamente. Il mio vero rapporto è con loro. Con il tempo ho sicuramente affinato lo strumento della lingua.
Il commissario Ricciardi e l’ispettore Lojacono sono i protagonisti di una serie di romanzi ambientata, rispettivamente, la prima, in una Napoli degli anni Trenta, la seconda, “I bastardi di Pizzofalcone”, ai giorni nostri e approdata con altrettanto successo in tv. Entrambi i personaggi sono, per motivi diversi, due uomini tormentati, irrisolti…
Al di là di Ricciardi e Lojacono, io credo che siamo tutti irrisolti e che siamo tutti in cammino. La perfezione e la felicità non esistono, mentre esistono la tendenza, il cammino verso queste due condizioni. I due personaggi, più che irrisolti, sono in corsa, ed hanno in comune la non napoletanità, nel senso che, pur vivendo a Napoli, provengono l’uno dal Cilento, l’altro dalla Sicilia. Non hanno mai un inserimento perfetto, completo, all’interno della città, ma non ne sono nemmeno particolarmente distanti, camminano verso Napoli e cercano di “impararla” un po’ alla volta. In comune hanno la posizione sull’amore: Ricciardi è come un cieco dalla nascita, ne ha paura, ne osserva gli effetti, ed è incapace di condividere se stesso, Lojacono è uno che cieco lo è diventato: lui, infatti, precedentemente, aveva una famiglia, una moglie, una figlia, ed è come amputato sia di quest’ultima che della sua carriera. Il primo sta costruendo, e il secondo sta ricostruendo, la propria personalità sentimentale.
Il commissario Ricciardi è convinto che a muovere un delitto, e il mondo, sia l’amore o la fame. Nella realtà è altrettanto vero?
Se estendiamo il concetto di fame e lo intendiamo come potere, comando, dominio, allora sì, entrambe sono pulsioni primarie che determinano questi desideri. Nel contemporaneo ci sono la prevaricazione e l’egoismo, che negli anni ’30 erano largamente inferiori.
Ricciardi è pignolo, schivo, timido, solitario… Qualcuno di questi aggettivi ti appartiene?
Io sono un po’ permaloso, ho questo difetto, ma credo sia una necessaria estensione della sensibilità. Con lui ho in comune la condivisione del dolore altrui. Lui, però, è introverso, mentre io sono estroverso, più stabile. Somiglio ad un altro mio personaggio, il brigadiere Maione.
“Sara al tramonto” è il titolo del tuo ultimo libro, in uscita tra pochi giorni, che sarà presentato il 9 aprile alle 20.30 al teatro Diana. La protagonista, Sara, è un’ex poliziotta di 55 anni: il tramonto è riferito alla sua età?
Sara è una donna che ha amato un uomo per venticinque anni, che poi si è ammalato ed è morto. Per lui aveva rinunciato al marito, a suo figlio e poi anche al lavoro, nutrendosi esclusivamente di quel sentimento. Il tramonto rappresenta la “sera sentimentale” che lei vive. Credo che ognuno di noi abbia una propria luce, una luce diversa: c’è chi ha quella dell’alba, chi quella del giorno, chi quella della sera. Sara è una donna al tramonto, ma le donne non tramontano mai.
Qual è il difetto che proprio non sopporti in una donna ed il pregio che non le deve mancare?
Il pregio è la consapevolezza della propria femminilità, il suo orgoglio di essere “femmina” è la cosa che più mi attrae. Il difetto peggiore è l’esasperazione della competitività: una donna è di per sé prima, vincente. Se è troppo competitiva con il mondo, sempre in gara, non mi piace.
Da giovane, pallanuotista, titolare nella squadra Posillipo e nella nazionale azzurra; in seguito, funzionario di banca, poi scrittore per caso. Sono passati diversi anni ed i tuoi numerosi libri ormai sono tradotti in diverse lingue. Letteratura, fumetti, calcio, teatro, televisione… Ma che cosa sognava il bambino Maurizio?
Da piccolo leggevo tantissimo ed andavo molto bene a scuola. All’epoca mi sarebbe piaciuto fare il giornalista, forse perché non sapevo ancora bene in cosa consistesse. E’ sicuramente un mestiere meraviglioso, se fatto in un certo modo.
Hai due figli maschi: che tipo di padre sei?
Sono più “madre”, molto materno, costantemente preoccupato ed apprensivo, ma cerco di non farglielo pesare. Mi chiamano due, tre volte al giorno. Sono due ragazzi straordinari ed io sono molto felice ed orgoglioso di loro. Mi ritengo un padre molto fortunato.
Prendendo spunto da alcuni titoli dei tuoi tanti libri… ad esempio “Il posto di ognuno” (2009), qual è il tuo posto, quello dove ti senti libero, te stesso?
Io sono un grande appassionato del Napoli: il calcio scatena un po’ della mia istintività, che in genere cerco di tenere a bada. C’è, poi, una poltrona, da cui mi sento avvolto… Ecco, quello è il mio posto, rappresenta un momento per pensare. Ho tante idee buone anche sotto la doccia: se fossi una persona meno pulita, avrei scritto pochi romanzi!
E “In fondo al tuo cuore” (2014), quali desideri, quali sogni ci sono?
Mi piacerebbe partire, andare in un posto lontano dove nessuno mi conosce e vedere che mi succede. Leggerei tanto, forse scriverei ancora, chissà!
E “Il senso del dolore” (2007), qual è?
Il dolore non ha un senso, va evitato, non ha una funzione catartica, non protegge. E’ feroce, distruttivo e trova un senso solo nell’amore degli altri, nella condivisione, come richiesta d’aiuto.
Napoli fa da sfondo ai tuoi personaggi: quanto ha contribuito la nostra città alla tua ispirazione e al tuo successo?
Integralmente! Se non fossi stato napoletano, oggi non sarei uno scrittore. E’ Napoli che mi racconta le sue storie, io le traduco. Se dovessi andare via, molto probabilmente non scriverei più.
Tavolino riservato nello storico “Gran Caffè Gambrinus” in piazza Trieste e Trento, dove, nel 2005, grazie ad un concorso e ad una ormai nota apparizione che ti ha ispirato, nacque il commissario Ricciardi. Posto riservato anche al “Bar…Toletti”, dove, ogni martedì sera, nella trasmissione condotta da Marino Bartoletti, in onda su tv Luna e che si avvale del tuo prezioso contributo, si discute del Napoli, di calcio e non solo. Tu, la nostra squadra, la ami in modo viscerale…
Napoli è una grande città, con una squadra sola. Loro due, città e squadra, si identificano, si assomigliano, nel colore, nell’andamento, nella forza, nelle sconfitte, nelle grandi vittorie inaspettate, nei periodi bui. Credo sia pressoché impossibile essere napoletani e non tifare per il Napoli!