(di Lino Zaccaria) –
Ora che ha ricevuto anche il placet di Di Maio il progetto per concedere l’autonomia al Veneto fa registrare un notevole passo in avanti.
Il governo, se resisterà, non impiegherà molto a trasferire al Parlamento, che controlla in maniera ferrea, ricorrendo ormai stabilmente alla questione di fiducia (ahi, grillini, quando glielo contestavate a Renzi!) il compito di tradurre concretamente le aspirazioni della regione, già legittimate da un referendum (e la Lombardia vedrete, farà il passo successivo).
Ma esattamente in che cosa consiste questa richiesta di maggiore autonomia? Semplice: il Veneto vuole trattenere una quota più cospicua del gettito fiscale regionale sottraendolo allo Stato e alla redistribuzione a favore di tutti gli altri italiani.
Secondo Salvini, e in genere secondo il verbo leghista, poiché i veneti pagano più tasse è giusto che abbiano diritto a più servizi. Obiezione: ma il fatto che paghino più tasse è solo una conseguenza del dettato costituzionale, che prevede appunto la proporzionalità dell’imposizione fiscale. Se guadagnano di più, e la classifica sui redditi degli italiani lo conferma, è giusto che debbano pagare più tasse. Ciò evidentemente non li autorizza a chiedere maggior autonomia e a sganciarsi dal criterio equitativo che soprassiede alla suddivisione delle risorse pubbliche. Elementare.
Sul piano pratico la Regione Veneto chiede di sottomettere alla sua competenza assoluta ben 23 materie, sulle quali è teoricamente possibile una cessione di “sovranità”. E non si tratta di materie di second’ordine (vengono alla mente miniere, cave e torbiere che indicavano le attribuzioni delle regioni quando noi si studiava, ahimè tanti anni fa, diritto amministrativo), ma gangli vitali dell’assetto sociale: dalla scuola al diritto allo studio universitario, alla previdenza complementare, ai beni culturali, al sostegno alle imprese, alle reti energetiche e infrastrutturali, alla protezione civile, alla regionalizzazione dell’Istat e, dulcis in fundo, alla pratica eliminazione del sistema sanitario nazionale. Una “bomba”, che non tiene assolutamente conto dell’esperienza maturata in questi anni e che aveva giustamente portato il governo Renzi a delineare, nella bocciata riforma costituzionale, un sostanziale ridimensionamento dei poteri delle Regioni, che tanta confusione, figlia della riforma del 2001, ha generato in termini di conflitti di attribuzione. Una inspiegabile marcia indietro, che fa ripiombare il leghismo quasi ai tempi del brindisi alle sorgenti del Po e della secessione del Senatur.
Questa prospettiva, se andasse a compimento, avrebbe inoltre non poche ripercussioni sul sistema produttivo. Già l’Italia marcia a due velocità, concedere più autonomia ad una regione trainante come il Veneto significherebbe accrescere il solco che divide Nord-Sud. Una sana azione governativa dovrebbe preoccuparsi di incrementare la competitività dell’intero sistema produttivo e non alimentare, viceversa, divisioni pericolose tra le regioni. E dire che questo governo è rappresentato dal premier Conte, che è meridionale, dal vicepremier Di Maio, che è meridionale, dal ministro della Sanità Grillo, che è meridionale, dal ministro della Giustizia Bonafede, che è meridionale, dal ministro dell’Ambiente Costa, che è meridionale. Per non parlare di Roberto Fico, che non è membro del governo, ma è presidente della Camera ed è anche lui meridionale.
Ebbene a tutti questi Illustri Signori di origine meridionale una breve “ripassatina” di storia non farà certo male. Ora il Veneto e il Nord intendono marcare la diversità. Una diversità che sostanzialmente hanno provocato e che non rivendicavano certo nel 1849, quando Carlo Alberto chiese aiuto a Ferdinando II che gli spedì un contingente di undicimila uomini per far la prima guerra all’Austria. E certo non ne tennero conto qualche anno dopo, quando Cavour per ingraziarsi Napoleone III, andò a guerreggiare in Crimea, spalleggiando francesi e inglesi. I piemontesi in quella occasione ottennero dalla regina d’Inghilterra un prestito di 25 milioni di lire a un tasso di interesse del 4%, pari ad un milione di sterline, che sarà poi pagato nel 1861, con le casse del Regno delle Due Sicilie, ad annessione avvenuta.
Una spoliazione. Eccovi qualche dato, tratto da Francesco Saverio Nitti, non uno qualunque. Con il primo censimento del neonato Regno d’Italia, nel 1861, la Province napoletane (Sicilia esclusa) fecero registrare 1.189.582 occupati nell’industria e 2.569.112 nell’agricoltura. Il Piemonte ne aveva rispettivamente 345.563 e 1.341.867. La Lombardia 465.003 e 1.086.028. Un abisso. Le altre regioni mostravano numeri assolutamente marginali.
Le monete circolanti negli antichi Stati italiani al momento dell’annessione ammontavano a 668 milioni, di cui 443,2 in corso nel Regno delle Due Sicilie; 8,1 in Lombardia, 27 nel Regno di Sardegna, 85,2 in Toscana, 12,7 in Veneto. Il Regno delle due Sicilie aveva due volte più monete di tutti gli altri Stati della penisola messi insieme. Un altro abisso.
Napoli era la prima città italiana per numero di abitanti, con 447.065. Seguivano Torino, 204.715 e Milano 196.109. Ancora un abisso.
I piemontesi trovarono a Napoli oro e danaro (comprese le ricchezze del Banco di Napoli, che hanno appena rispogliato, fagocitandolo in Intesa San Paolo) e senza alcuna remora se li presero per rinvigorire le loro esauste casse. Per non parlare delle ruberie di Garibaldi nel breve periodo di dittatura seguito all’entrata in Napoli.
Qui Vittorio Emanuele lasciò solo rovine e a chi tentò di ribellarsi ai soprusi riservò l’appellativo di “briganti”. E li spazzò via dopo dieci anni di generosa resistenza. Quelli che hanno la “puzza sotto il naso” ora ci svillaneggeranno definendoci “neo-borbonici”. Facciano pure. Ma gli illustri Signori di cui sopra forse non se lo possono consentire.
E infine questi illustri Signori ricordino che, consolidatosi definitivamente il processo unitario, nel 1915 furono letteralmente prelevati dalle campagne del Sud milioni di giovani, la maggior parte dei quali senza alcuna preparazione bellica, e furono mandati allo sbaraglio a morire per una patria che aveva depredato le loro terre riducendoli alla miseria se non all’esilio, nelle lontane Americhe sfruttati in umili lavori. Costretti a morire o ad emigrare perché la patria aveva trasferito al Nord tutte le industrie fiorenti del Regno borbonico (le siderurgiche di Mongiana e Pietrarsa, tanto per fare qualche esempio) ed aveva creato quella che verrà poi definita “la questione meridionale”. Una questione che nei fatti si sta già riproponendo, che le istanze venete possono concorrere ad inasprire e che purtroppo non è presente, non solo nel contratto, ma nemmeno nell’agenda del governo.