di Marco Martone*
I piedi nel fango, le scarpe sporche, il volto bagnato dalla pioggia che scende senza sosta. Lo sguardo su quelle auto ammassate, l’una sull’altra, come fossero state colpite dall’onda d’urto di una bomba devastante. La statua della Madonna, con quella corona di luci penzolante da un lato e con quegli occhi di marmo, che pure sembrano scrutare tra le onde del mare increspato, dove le motovedette della Guardia Costiera e della Capitaneria di Porto cercavano segni di vita o semplicemente corpi di cadaveri galleggianti. E poi quei palloni finiti sulla spiaggia, trascinati dalla furia della lava di fango, da quel fiume di morte e di devastazione. Guardi quei palloni sporchi e sgonfi, scesi da chissà dove e pensi a tanti bambini, ragazzi e anche adulti, che ci corrono dietro per un calcio di gioia, di svago e spensieratezza. Pensi alle risate, all’esultanza per un gol, alla rabbia per una sconfitta. Ed ora quei palloni sono lì, come tristi simboli di morte, l’uno accanto all’altro su una spiaggia che non esiste più.
La tragedia di Ischia è anche in queste fotografie della mente, questi istanti che ti restano impressi e che porterai per sempre con te, assieme a quell’amore inspiegabile per un’isola che ti sta dentro e che anno dopo anno vedi sfiorire, massacrata da cattiva politica e da una gestione del territorio che fa ribrezzo e rabbia. Perché le colpe di quello che si è verificato e che, è bene dirlo, accadrà ancora anche in futuro, sono tante e appartengono a svariate persone. Sono di chi ha costruito le case nel ventre della montagna, chi non ha fatto nulla per evitare che questo scempio si compisse, chi ha fatto in modo che non si procedesse, negli anni, ad una vera e propria opera di demolizioni e di decentramento delle tante famiglie che, certamente, avevano diritto ad un a casa dignitosa e soprattutto sicura. Le colpe sono anche di quelli che hanno promesso la messa in sicurezza delle zone già colpite in passato da disastri del genere e sono di tutti quelli che vengono a Ischia a promettere, impegnarsi, fare proclami, sulla pelle della gente, per un pugno di voti da incassare alla elezioni. Passerelle inutili e dannose, ipocrite e pietose, che si ripeteranno nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, fino alla prossima frana e ai prossimi morti. E intanto Ischia scompare, come scompare il verde degli alberi sulle colline e le montagna, sostituiti da cemento, strade, alberghi e piscine. Gli ischitani non vogliono sentirsi in colpa per quanto accaduto e rigettano con forza la questione dell’abusivismo. Anche i sindaci dell’isola si risentono e lanciano strali contro chi tira in ballo la questione. Il dramma di tutta questa situazione, in effetti, è che in alcune zone del nostro Paese Italia, la popolazione e qualche amministratore, sono talmente abituati agli abusi, da considerarli come una condizione di assoluta normalità.
E forse gli isolani hanno anche ragione, perché questo è il momento del lutto e del dolore, della solidarietà e degli aiuti, non certo delle accuse e delle polemiche. Questo è anche il momento della preghiera e della chiarezza. Perché, è bene sottolinearlo, l’abusivismo non è la causa dei disastri ma ne è la prima e unica vittima. E gli abitanti abusivi non sono i carnefici di qualcuno ma quelli destinati a piangere i loro morti. A Casamicciola le case non hanno provocato la frana, così come quelle costruite a due passi dal cratere del Vesuvio non potranno mai essere la causa di un’eventuale eruzione. In entrambi i casi, però, quelle case sarebbero le prime ad essere spazzate via, se la montagna dovesse cedere o il vulcano esplodere. Per questo motivo, fare riferimenti al secolo scorso e alle frane sull’Epomeo, quando l’abusivismo non esisteva, non ha senso. Perché una montagna può anche implodere ma se non trova case da distruggere, resterà sempre e solo un disastro ambientale ma non una strage di vite umane. Pensare ad un ripristino dello stato di legalità sull’isola d’Ischia, dove il numero delle case abusive costruite negli ultimi 20 anni, fa paura solo a scriverlo, appare impresa senza speranza. Pura retorica. Pensare alla demolizione di oltre 20mila manufatti è impossibile. Si può invece evitare di ricostruire le case distrutte, negli stessi posti dove la lava le ha mangiate, provare a mettere in sicurezza alvei e canaloni, difendere i boschi dagli incendi dolosi e mettere in galera chi oltraggia l’isola e condanna a morte un bimbo di appena 21 giorni, che non ha avuto neanche il tempo di capire quanto bello fosse il luogo in cui si trovava. Era nato a Ischia quel piccolo angelo. Un paradiso verde che il folle arrivismo di menti criminali, ha ridotto ad un’isola indifesa e così drammaticamente fragile.
*Pubblicato sul Golfo quotidiano