di Lino Zaccaria
La decisione del neo presidente della Camera di commercio di Napoli Fiola di rimuovere la statua del generale Enrico Cialdini dal salone d’onore della sede di piazza Bovio ha scatenato una vibrante reazione del mondo accademico partenopeo, che si è materializzata in una lettera inoltrata a “Repubblica” da parte di Renata De Lorenzo, presidente della Società di Storia patria, docente di Storia moderna e contemporanea alla Federico II e autrice del volume “Borbonia felix”, con il quale, nel 2013, fornì una sua versione sulla cause che portarono al crollo del Regno delle Due Sicilie.
Una versione che andava in senso opposto rispetto alla pubblicistica che si era fortemente proposta in quegli anni, tesa ad una dimostrazione degli avvenimenti del tutto differente rispetto alla conclamata apologia risorgimentale.
All’intervento della De Lorenzo ha fatto seguito, sulle pagine del “Mattino” una ulteriore presa di posizione di uno dei più prestigiosi articolisti del quotidiano, il professor Adolfo Scotto di Luzio, anch’egli cattedratico, grande esperto di scuola ed anch’egli attestato su decise posizioni negazioniste rispetto al revisionismo che appunto in questi anni ha messo in discussione dogmi per un secolo e mezzo spacciati come assoluti e indiscutibili.
Per spiegare bene al nostro cortese lettore il nocciolo della questione occorre ricordare che la storiografia ufficiale ha sempre descritto il Regno delle due Sicilie come il “male assoluto”, arretrato, malfamato, guidato da sovrani semianalfabeti e dispotici. Questa vulgata si è tramandata, mai messa in discussione, non solo nelle monografie e nelle grandi opere, anche enciclopediche, ma è stata rappresentata anche nei testi di storia sui quali si sono formati negli anni milioni di giovani studenti (compreso, umilmente, il sottoscritto).
Ebbene, ad un certo punto, sepolte dal tempo le passioni, storici non di professione, ma giornalisti armati di entusiasmo, si sono messi a scavare nelle fonti ed hanno scoperto che le cose non erano andate esattamente come l’elogio risorgimentale le aveva divulgate. La solita storia scritta dai vincitori. Basta solo pensare alle tre guerre di indipendenza, descritte entusiasticamente come il fulcro dell’unità ed in realtà tre guerre perse dall’esercito piemontese, con celebri sconfitte che ancor oggi bruciano sul prestigio della nazione. Ebbene i vari Pino Aprile, Lorenzo del Boca, Giordano Bruno Guerri, Antonio Ciano, Gianni Oliva e Gigi Di Fiore hanno inanellato una serie di best seller, premiati da clamorosi successi di vendite, con i quali hanno dimostrato che il Regno delle due Sicilie era tutt’altro che la sentina di tutti i mali di quel mondo, che i sovrani Borbone erano tutt’altro che tiranni, che Garibaldi era tutt’altro che un galantuomo, che quelli che la storiografia ufficiale aveva definito “briganti” nella maggior parte dei casi erano tutt’altro che masnadieri e che i piemontesi insediatosi al Sud furono tutt’altro che occupanti generosi e signorili, ma che utilizzarono le violenze più inaudite, tipo nazisti in fuga, contro chi non voleva rassegnarsi a quel golpe che li aveva privati dell’indipendenza e dei regnanti ai quali intendevano rimanere fedeli. Si scoprirono così le magagne delle finanze dilapidate e trasferite nei forzieri torinesi, delle fiorenti industrie azzerate o delocalizzate in quello che sarebbe poi diventato il “triangolo industriale”, vennero a galla la vergogna del lager di Ferrandelle e le feroci stragi di Pontelandolfo, Casalduni e Auletta, dove intere popolazioni furono annientate dalla furia dell’esercito sabaudo. E chi comandava questi “civilizzatori” armati? Udite, udite: il generale Enrico Cialdini. Un eroe. Tant’è che persino De Magistris si è reso conto dei “benefici” che costui aveva arrecato a Napoli e al Sud e nel 2017 gli ha revocato la cittadinanza onoraria che improvvidamente, durante gli anni della glorificazione risorgimentale, qualche stolto gli aveva donato.
Questa la ricostruzione delle vicende, da cui sono scaturite la tardiva decisione di spostare la statua e la reazione dei due cattedratici, evidentemente punti sull’orgoglio delle loro granitiche certezze. Quel che però indispettisce è il passaggio in cui Scotto di Luzio parla di “vasta e approssimativa” pubblicistica anti-risorgimentale” E’ il solito sussiego di chi ritiene che di Storia possa scrivere solo chi ha compiuto specifici studi universitari e abbia magari anche una cattedra. Guai ad invadere il sacro recinto dell’Accademia. E’ un atteggiamento antico. Sbeffeggiarono Montanelli, che con la sua “Storia d’Italia” ha venduto milioni e milioni di copie. Ed hanno sempre storto il naso di fronte agli scritti di Gianpaolo Pansa, di Bruno Vespa, di Antonio Spinosa e di tutti gli altri giornalisti sopra citati.
Vada comunque per il “vasta” (effettivamente è vasta), ma quell’approssimativa, professor Scotto, proprio non si può sopportare. Chi scrive conosce personalmente molti dei “revisionisti” di cui sopra e può garantire che si tratta di professionisti assolutamente seri e non di scrittori di fantasia. Basta leggere le loro opere e i riferimenti bibliografici per rendersene conto. Ma chi scrive è in grado di fornire una testimonianza anche più diretta su Gigi Di Fiore, del quale è stato per decenni collega al “Mattino”. Ebbene Gigi Di Fiore per anni ha rinunciato alle ferie per trascorrere il suo tempo libero per documentarsi all’Archivio nazionale di Napoli, alla Sezione militare dello stesso archivio, all’Archivio militare centrale di Roma, nella consultazione di decine di memorie autobiografiche di ufficiali borbonici, piemontesi e garibaldini, all’archivio privato di Giuseppe Catenacci, un’autentica “miniera”, e alla collezione “Gazzetta di Gaeta”. Ed ancora ha lustrato le sedie del Archivio del Museo del Risorgimento, dell’archivio di Stato di Palermo, dell’Archivio di Stato di Torino, dell’Archivio storico della Camera dei deputati, della Biblioteca nazionale di Napoli e della straordinaria Emeroteca Tucci.
Bastano queste giornate e giornate spese a consultare, a studiare, a prendere appunti, a fotocopiare per dare credibilità ai testi che ne sono scaturiti, in particolare “I vinti del Risorgimento” e “La nazione napoletana”? Noi crediamo proprio di sì e, a meno di non ritenere Di Fiore un minus habens, bisognerebbe concludere che la sua pubblicistica può essere definita tutto meno che “approssimativa”. Giriamo questi rilievi al professor Scotto di Luzio. E ai lettori l’invito di andarsi a comprare, se già non lo hanno fatto, i testi di cui sopra. Quando li avranno letti abbiamo la presunzione di ritenere che ci daranno ragione. Altro che approssimativi.