di Mariateresa Di Pastena
A Napoli i sogni (e’ suonne) non sono come tutti gli altri sogni: qui, da sempre, si traducono in numeri e corrono in ricevitoria per essere giocati. “Che ti costa San Gennà, a me mi basta n’ambo, na’ settimana sì, e una no!”, implorava un delizioso Lello Arena in uno degli esilaranti sketch de “La Smorfia (formata dall’irresistibile trio Troisi, Arena, De Caro). E, il gioco del lotto, potremmo definirlo metafora della vita in una delle indimenticabili commedie di Eduardo De Filippo, “Non ti pago”, dove il ‘povero’ Ferdinando Quagliuolo, gestore di un banco del lotto, ereditato dal padre, pur essendo pratico del mestiere, non riesce a vincere nemmeno una lira ed assiste, inerme ed incredulo, alle ripetute vincite del suo dipendente Mario Bertolini.
Ambientata ai tempi della seconda guerra mondiale, in una Napoli particolarmente affamata di pane e di sogni, rispecchiava quelli dei meno fortunati che, di settimana in settimana, attendevano l’estrazione del lotto, pieni di speranze. Oggi, anche i sogni sono al passo con i tempi e quindi si fermano dal tabaccaio: appartengono a persone di ogni età e classe sociale, ma in particolare a signore anziane, che vi entrano sventolando fogliettini di fortuna su cui, al risveglio, hanno trasferito il sogno della notte appena trascorsa, ancor prima di preparare il caffè, in fretta e furia, per paura di dimenticarlo.
“Giuvino’… “ (sarebbe il tabaccaio, che resta per loro giovane a vita!), esclamano, facendo scivolare il pezzetto di carta nella fessura sotto il vetro, insieme alla banconota da investire. La tenerezza dei visi di queste signore è infinita ed esprime pienamente il loro desiderio di tornare, in quella tabaccheria, il giorno dopo, per ritirare una vincita, anche piccola, anche insignificante, ma che possa far pronunciare loro quella frase magica formata solo da un verbo e da un punto esclamativo: “ho vinto!” E per poter, soprattutto, continuare a credere nei sogni.
Ma, oltre ai sogni che ci vengono a trovare di notte, ce ne sono altri, ancora più importanti: quelli che non hanno bisogno dell’oscurità per apparire, anzi, pretendono la luce del giorno, si impadroniscono dei nostri pensieri, danno loro un paio di ali, e li fanno volare come aquiloni. Ci sono quelli che culliamo fin da bambini, quando tutto ci sembra bello e possibile, e crediamo di poterci trasformare in un supereroe che possa salvare il mondo. Vogliamo diventare calciatori, scrittori, insegnanti, medici, cantanti, astronauti… e non vediamo l’ora di diventare grandi. Questi sogni, a volte, ci accompagnano e crescono con noi, altre volte scompaiono e facciamo fatica perfino a ricordarli. Cambiano, si allontanano, ma poi tornano e vengono a riprenderci, perché, quando un sogno è un desiderio vero, puro, si attacca al cuore come una calamita. Possiamo far finta di ignorarlo, di cambiare strada per non incontrarlo, ma lui ci spia, ci segue, ci aspetta. Capita soprattutto quando, dopo averlo realizzato, sembra perdere il suo fascino: stupidamente cantiamo vittoria e lo accantoniamo, rendendolo invisibile.
Ma i sogni sono fedeli, loro non si dimenticano di noi: anche a distanza di anni, bussano alla nostra porta e, se non apriamo, la buttano giù, delicatamente. All’inizio ci spaventiamo quasi, ma poi, appena ne sentiamo il profumo, quel profumo dolce che solo i sogni hanno, ci torna in mente la felicità che ci ha fatto provare. E ci accorgiamo che è ancora parte di noi, che non lo abbiamo mai dimenticato, ed è un miracolo che sia ancora lì, che sia tornato! Così, finalmente, mentre lui, timido e impaurito, è ancora lì sulla porta (ma la porta in realtà non esiste più, non è mai esistita!), gli andiamo incontro e lo abbracciamo forte. E lo amiamo ancora, anzi, lo amiamo più di prima, e siamo di nuovo felici, nonostante il tempo ed i dolori che hanno attraversato la nostra vita. Perché, i sogni, quelli che riempiono le nostre notti e quelli che illuminano i nostri giorni, sono sempre la traduzione della nostra anima.