Uno spettacolo teatrale che, in maniera diversa, riprende il delicato tema della Shoah, attraverso un racconto, un dialogo e un messaggio importante: i campi di concentramento e l’annullamento degli esseri umani da parte dei nazisti è un dramma che va ricordato ogni giorno e non solo il 27 gennaio, Giornata della memoria. Un dolore che deve essere raccontato in qualsiasi occasione, per farlo conoscere anche alle future generazioni. Con questo intento va in scena “Il Diario Nero” dialogo intenso e profondo tra due figure degli anni dello sterminio interpretate da Antonio dell’Isola attore e autore dello spettacolo e Diego Consiglio, attore, regista e presidente dell’associazione culturale Viva Flegrea.
Ben Naim, uno dei pochi sopravvissuti di questo copione teatrale, alla sua morte lascia un quaderno in cui racconta tutto l’orrore vissuto, le emozioni provate e di come “il progetto” nazista sia riuscito ad annullare l’uomo e la sua dignità.
Racconta la vita quotidiana all’interno di un campo di concentramento, una routine impregnata di meschinità e paura, uomini che si sentivano superiori e che usavano la violenza per imporre le proprie idee; la forza di vivere dei pochi superstiti e il dolore di allontanarsi dai propri familiari.
Adam Shultz, invece, tedesco oggi anziano, è uno dei nazisti che sarà costretto a fare i conti con il suo passato ritrovandosi faccia a faccia con Stefano, ex militare ed ora agente di sicurezza, con il quale ripercorre la sua vita, gli errori commessi e i crimini perpetrati.
Un’indagine, quella di Stefano, per far sì che emerga la verità e che la giustizia faccia il suo corso.
Ma giustizia per chi? è davvero finita la guerra?
Sono le domande che emergono – forti – nel dialogo e che potrebbero mettere in crisi il senso di giustizia di ognuno di noi, travolgendo lo spettatore e facendo vacillare le sue convinzioni.
Due storie parallele che si intrecciano indissolubilmente, in cui lo spettatore viene proiettato in due momenti storici diversi legati da un unico filo conduttore: raccontare per non dimenticare.
Ma oggi, nell’anno 2023, possiamo davvero dire di essere migliori, di aver imparato dagli errori del passato senza ripeterli in altre circostanze della vita?
Lo scrittore Primo Levi, partigiano antifascista e superstite dell’Olocausto, divide nei suoi scritti i prigionieri dei campi di concentramento in due categorie : i sommersi e i salvati.
La quasi totalità dei prigionieri appartiene ai «sommersi», mentre assai pochi sono i «salvati», pur se molteplici e diversissime sono le modalità attraverso le quali ci si salva.
Nell’inferno del lager alcuni uomini riescono a rimanere fedeli a se stessi, alla propria dignità umana e, aiutati da una casualità cieca, ad emergere da quell’inferno. Altri sono destinati fin dall’inizio a soccombere.
I “salvati” sono quelli che hanno trovato il modo di sopravvivere nell’inferno ma non sono i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio; anzi, spesso l’esatto contrario: sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie, capaci di vendere i
propri compagni di prigionia per un pezzo di pane, di pestarli anche, pur di garantirsi la sopravvivenza. Erano riusciti a vivere accettando di abbandonare parte(o tutta) della propria moralità e integrità, riuscendo a divenire “utili” al funzionamento del campo.
Ma in fin dei conti, sostiene sempre Levi, non esisteva una vera soluzione per uscirne vivi: il destino finale progettato per loro, dai nazisti, era lo sterminio: nessun sopravvissuto.