Fratello imprenditore, sorella imprenditrice,
ti scrivo all’inizio di una stagione turistica tutta particolare e densa di incognite a causa della pandemia con la quale, benché usciti dalla fase più acuta, tuttora stiamo facendo i conti, ancora in pensiero per il rischio per nulla infondato di una nuova fase di recrudescenza.
Come era da immaginare l’emergenza sanitaria sta causando una vera e propria crisi economica e, fra tutti, il comparto turistico sembra essere quello che ne risentirà maggiormente, e non per poco.
Per questo, molti tuoi colleghi hanno pensato di sospendere per quest’anno la propria attività e forse anche tu, a motivo della crisi, stai riflettendo, o hai già deciso, che sia meglio non “riaprire”. Se questa è la tua decisione, la rispetto; comprendo le tue difficoltà e immagino le tue preoccupazioni. Sono anche certo che la scelta di interrompere eventualmente l’attività non sia stata presa a cuor leggero, e che la cosa, valutata sicuramente con attenzione, ti addolori non poco.
Avverto tuttavia l’esigenza in questo momento di rivolgerti un appello e, prima ancora, di dirti una parola. Lo faccio, preoccupato soprattutto per i tanti lavoratori stagionali che quest’anno vivranno una situazione certamente non facile, per i quali ritengo che, come vescovo, sia mio dovere far sentire la mia voce, intervenendo con chiarezza a loro fianco.
Ischia, come ben sai, da decenni vive principalmente di turismo, e dell’accoglienza ha fatto, negli anni, il fondamentale motore della sua economia e il primo frutto del suo lavoro. I lavoratori stagionali che operano nelle numerose strutture alberghiere e di ristorazione, ma anche, più in generale, quelli che lavorano in quest’indotto, sono perciò la maggior parte: pare all’incirca dodicimila.
Molti di loro ora, però, a motivo della pandemia, corrono il rischio di rimanere senza lavoro e tanti potrebbero trovarsi con le tasche vuote. La loro posizione economica – a causa del taglio dell’indennità di disoccupazione corrisposta dallo Stato – già da qualche anno, in verità, si era complicata; ma a seguito del coronavirus, adesso la situazione si fa ancora più difficile, anche perché molti, per una serie di motivazioni poco condivisibili, non stanno rientrando nei bonus che Governo e Regione hanno deciso di concedere alla categoria; e così, essi, si vedono privati anche di quegli aiuti economici sui quali credevano di poter contare.
Cosa ne sarà di loro e delle loro famiglie? Per molti di loro quest’estate e, ancor più i mesi successivi, saranno realmente a rischio di fame. Nel frattempo sull’Isola le situazioni di disagio economico sono cresciute in numero considerevole. Per questo la nostra Caritas già da tempo sta moltiplicando gli interventi in favore delle famiglie in difficoltà, e altrettanto stanno facendo le parrocchie e le associazioni di volontariato. Tutto ciò però non può bastare. È necessario fare di più! E fare di più in questa fase vuol dire concretamente sostenere i tanti lavoratori stagionali. Non farlo potrebbe invece significare non solo “lasciare a terra” loro e le loro famiglie, ma danneggiare tutti, facendo collassare l’intera economia isolana e provocando, di conseguenza, l’aumento esponenziale di un disagio sociale difficile da gestire.
Certo, è innanzitutto la politica che deve fare la sua parte; spetta infatti in primo luogo ad essa intervenire, pianificando programmi di vero sviluppo integralee azioni di natura economica che pongano al primo posto la dignità di ogni persona umana e il bene comune. Per questo è senza dubbio importante che tutti ci diamo da fare per stimolare e, se fosse necessario, anche pungolare quanti hanno responsabilità politiche e di governo- a incominciare dagli amministratori locali – perché si adoperino fattivamente in favore del bene comune.
Non possiamo però limitarci a spronare la classe politica e a svolgere su di essa un ruolo di continua vigilanza. Dobbiamo anche chiederci: e noi, per parte nostra, cosa possiamo fare?
Nei momenti difficili, di calamità e di sciagure, molti, di primo acchito, pensano che la regola più sicura da seguire sia quella del “ognuno per sé e Dio per tutti” e che, in quei casi, l’unica cosa giusta da fare e da dire sia “si salvi chi può”; ma evidentemente quelle espressioni sono frutto di un sentimento di paura; e la paura, si sa, spesso è cattiva consigliera. Lo diceva, intervistato da una tv spagnola, già nei giorni di massima esplosione del virus, lo stesso Papa Francesco: “Si salvi chi può non è la soluzione”. E aggiungeva: “Più che licenziare bisogna accogliere e far sentire che la società è solidale. Se si parla delle difficoltà delle imprese, legate alla crisi del Coronavirus, ci sono le difficoltà del dipendente, della dipendente, dell’operaio, dell’operaia. Occorre farsi carico di queste realtà”.
Carissimo/a, mi unisco anche io, umilmente, al Santo Padre e, semplicemente, in nome del Vangelo, mi permetto di rivolgerti un appello accorato in favore di tutti i lavoratori dell’Isola.
Nel caso in cui tu avessi deciso di non riaprire, ti chiedo, perciò, di riconsiderare la tua decisione e di verificare se sia possibile riavviare la tua attività. Ma, prima ancora, ti domando di fermarti a riflettere su quanto è accaduto e sulla situazione che tutti stiamo ancora vivendo: ascoltare la nostra coscienza forse ci aiuterà a capire che non sempre è giusto fare ciò che ci appare più conveniente.
Riaprire l’attività, mi pare, innanzitutto, un atto di responsabilità. Sì, di responsabilità, nel senso letterale del termine. A ciò che sta avvenendo siamo, infatti, chiamati a dare una risposta. Non possiamo pensare di guardare da un’altra parte; non possiamo voltare le spalle a chi è nel bisogno. Le persone che fino a oggi hanno lavorato per te sono legate a te da un patto di solidarietà: non puoi ora sbarazzarti di loro come se fossero un peso.
Riaprire l’attività, è anche un atto di giustizia. Ciò che sei e ciò che hai è frutto sì della tua opera, ma anche del dono e del lavoro di altri. Tanto ti è stato dato e tanto hai ricevuto. Ora si tratta di restituire quanto hai preso: dagli altri, dalla terra, da Dio. Almeno in parte hai la possibilità di restituire e di sdebitarti di quanto a tua volta hai ottenuto.
Riaprire l’attività, è un atto di riparazione: non sempre è stato promosso un lavoro equo, rispettoso della dignità delle persone e solidale; a volte, nella gestione dell’attività, forse, le leggi del mercato e del profitto hanno avuto la meglio a discapito delle esigenze dei lavoratori. Ora ci è data la possibilità di riparare; di realizzare cioè, concretamente, anche per la tua azienda una vera opera di ri-conversione.
Riaprire è anche un atto di fiducia: nella vita, negli altri, in Dio. E dalla fiducia nasce il coraggio. Sappi anche che nella sfida non sei solo e che in tanti facciamo il tifo per te, a incominciare dagli stagionali che fino allo scorso anno lavoravano nella tua azienda.
Riaprire è anche un atto di saggezza: se tutto il mondo intorno a noi brucia, non serve a molto chiudersi in casa pensando così di stare al sicuro. Serve invece uscire, e lavorare insieme agli altri per spegnere l’incendio. L’epidemia ce l’ha insegnato e tante volte lo abbiamo detto: a partire da Papa Francesco che ci ha ricordato che stiamo tutti sulla stessa barca, che tutti siamo chiamati a remare insiemee che, soprattutto, nessuno si salva da solo.Sì, come già ci aveva detto la Laudato si’, la Terra è la nostra casa comune e noi, nel bene e nel male, siamo tutti connessi e tutti collegati.
Riaprire è, infine, un atto di misericordia, perché, come dicebene il Papa, “la misericordia non abbandona chi rimane indietro”; viceversa l’egoismo indifferenteci fa credere “che la vita migliora se va meglio a me, che tutto andrà bene se andrà bene per me. Si parte da qui e si arriva a selezionare le persone, a scartare i poveri, a immolare chi sta indietro sull’altare del progresso” (omelia del 19 aprile 2020).
Carissimo/a, un giorno Gesù raccontò la storia di un uomo ricco che, tutto concentrato su se stesso, aveva lavorato avendo come suo unico obiettivo quello di arricchirsi; chiuso nel suo egoismo, quell’uomo aveva impostato tutta la sua attività solo per uno scopo: disporre di molti beni, per molti anni; e così riposarsi, mangiare, bere e divertirsi. Quell’uomo Gesù lo definì stolto: aveva infatti accumulato solo per sé, ma non si era arricchito dinanzi a Dio (Cfr. Lc12, 16-21).
Carissimo/a, qual è il compito di un vero imprenditore? “La vocazione di un imprenditore – afferma Francesco – è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo” (Evangelii gaudium, 203).
Carissimo/a, ti auguro di essere un imprenditore così: un imprenditore che desideri praticare una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda. Sì, diamoci da fare per una nuova economia!
Per questa opera, Dio ci rassicura: “la farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà” (2Re17, 14).
Nell’attesa d’incontrarti da vicino, ti saluto e ti benedico.