di Fabio de Paulis
Un film autobiografico sfugge a qualsiasi giudizio perché è la storia del suo autore e non si può giudicare se sia bella o brutta, giusta o sbagliata, o quale messaggio voglia trasmettere, è la vita di chi la racconta e basta. Sorrentino ci ha raccontato la sua genesi e l’ha dipinta come solo lui sa fare, facendoci salire e scendere acrobaticamente dalle montagne russe del suo ultimo lavoro. Parte forte con una sequenza aerea del golfo di Napoli e della città vista dall’alto che non ti preannuncia che in questo paradiso ci saranno scene e situazioni quasi infernali. Si cimenta nella commedia e lo fa egregiamente dove personaggi felliniani in salsa partenopea recitano se stessi, in un misto di donne simil Almodovar ma boteriane nelle fattezze, a parte la sublime Luisa Ranieri, e grotteschi uomini. La città è in fermento se Maradona viene o non viene, la famiglia Sorrentino ne vive il travaglio al punto tale da dimenticare in un attimo il tradimento del padre nei confronti della madre, primo infernale travolgimento interiore del protagonista.
Maradona fa da corollario, Maradona gli salverà la vita, Maradona gli rende l’inferno della perdita, o “dell’abbandono” dei genitori, più sopportabile. Maradona sarà fonte di ispirazione emotiva. Ma non è vero però che sui balconi Napoli celebrò la partita dell’Argentina con l’Inghilterra come fosse stata una vittoria dell’Italia ai mondiali. Innanzitutto quella partita per il fuso orario si vide solo di notte e quindi soltanto in pochi assistettero in diretta alla mano de dios e subito dopo al gol più bello di sempre. Qui il regista si è voluto concedere un artefatto di cronaca sportiva per testimoniare la vicinanza del popolo napoletano a quello argentino che avrebbe raggiunto il culmine quattro anni dopo nella fatidica semifinale Italia-Argentina, finita con quei rigori che decretarono la fine delle notti magiche. Il film prosegue con le esperienze emotive del giovane Fabietto, tra le quali l’iniziazione al sesso, argomento che Sorrentino solo “nell’Amico di Famiglia”, tratta con uguale truculenza. Poi la drammatica fine dei genitori. La perdita del padre, suo unico vero amico e della madre, colonna portante della famiglia. Vi sono riferimenti al suo percorso cinematografico, esplicitamente al Fellini satirico e immaginario; a Sergio Leone, ma limitatamente a “C’era una volta in America, e al suo nume tutelare, il regista Capuano (interpretato magistralmente da Capano) che con rudezza gli apre la strada per il cinema urlandogli in faccia: “Non ti disunire”, “che cosa hai da raccontare?” “Ce l’hai un conflitto?” I presupposti per fare cinema. Ebbene, Sorrentino descrive realisticamente come ci è arrivato a fare il suo cinema, si mette a nudo e sembra che voglia liberarsi definitivamente dei suoi demoni interiori. Nella descrizione di questa Napoli, ineducata ma borghese che ritrae Massa Lubrense, Roccaraso, Posillipo e le vacanze a Stromboli, manca la Napoli in ricostruzione post terremoto di “Mi manda Picone”, manca la Napoli di Massimo Troisi.
Anzi manca del tutto Troisi che con Maradona e Pino Daniele in quegli anni posero Napoli al centro delle attenzioni del mondo dello spettacolo ma che evidentemente a Sorrentino non destava troppo interesse. Non manca il riferimento al gomorroide di turno (la violenza di Scorsese di Goodfellas si vede tutta) protagonista a inizio film di uno dei tanti inseguimenti tra finanza e contrabbandieri che in quegli anni a partire da Santa Lucia, si affrontavano duellando nel golfo di Napoli, come non manca la Napoli esoterica con il “munaciello”. C’è davvero tanto in questo film, come ci sarebbe ancora tanto da raccontare di Napoli e glielo dice il Capuano: “… Che cazz ci vai a fare a Roma?”. Forse la risposta è che “dal Paradiso abitato da diavoli” Sorrentino è partito su di un treno con un walkman nelle orecchie sulle note di “Napul’e”, per arrivare alla “Grande Bellezza” che gli è valso l’oscar. Un Oscar vinto grazie a Fellini, Scorsese, i Talkin Head, a Diego Armando Maradona e alla mano di Dio.