Strano a dirsi, ma anche in Campania la Repubblica di Salò di Mussolini aveva i suoi seguaci. Lo svela un libro documentatissimo, “L’Italia di Salò” (Il Mulino, pp. 490, euro 28), di Mario Avagliano e Marco Palmieri, che – attraverso le lettere, i diari, i documenti del tempo – racconta i motivi dell’adesione di tanti italiani (oltre mezzo milione solo i militarizzati, più altrettanti iscritti al partito) alla Repubblica sociale e la loro partecipazione diretta ai crimini e agli eccidi degli occupanti tedeschi.
Il libro sarà presentato per la prima volta in Campania venerdì 7 aprile alle ore 18:00 presso il Circolo della Stampa di Avellino e sabato 8 aprile alle 9:45 a Cava de’ Tirreni presso la Sala Consiliare di Palazzo di Città, alla presenza di uno degli autori Mario Avagliano giornalista, storico e saggista italiano.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, aderirono alla Rsi diversi campani e meridionali che si trovavano al Nord, o erano prigionieri degli Alleati e rifiutarono di cooperare con loro, oppure erano stati catturati dagli ex camerati tedeschi e portati nei campi di prigionia nel Reich e decisero di entrare nelle file dell’esercito di Salò. Lo fecero per vari motivi: per fedeltà al duce e al fascismo, per amor di patria, per vendicare il presunto tradimento del regime fascista e degli alleati tedeschi, ma anche per opportunismo, carrierismo, imitazione dei compagni o timore di essere fucilati.
È meno noto però che il fascismo ebbe i suoi fedelissimi non solo nell’Italia del centro-nord, ma anche in Campania, racconta il libro di Avagliano e Palmieri. Napoli non fu solo la città delle Quattro Giornate e medaglia d’oro della Resistenza. Dopo l’occupazione tedesca all’indomani dell’8 settembre del 1943, sotto il Vesuvio si riorganizzò prontamente il partito fascista. Già alla fine del mese l’avvocato Domenico Tilena riapriva la sede provinciale del fascio in via Medina.
Nel corso delle quattro giornate, tra il 27 e il 30 settembre, quando partigiani e civili insorgono contro i tedeschi, diverse centinaia di fascisti entrarono in azione al fianco di questi ultimi come franchi tiratori. Gli episodi furono numerosi, da via Toledo a piazza Marinelli, da via Duomo a via dei Mille, alla salita Magnacavallo e al Vomero.
Alcuni dei fascisti napoletani, come Vincenzo Tedesco, partiranno volontari con i tedeschi in fuga da Napoli dopo le quattro giornate. Vincenzo si arruolerà nella divisione Corazzata M; catturato e condannato a morte, scrive ai genitori prima di essere fucilato: «Io cado ucciso dai nostri nemici, dopo avere combattuto fino all’ultimo per la salvezza e la liberazione della Patria. […] Viva l’Italia!».
Finita la strenua e talvolta disperata resistenza alla liberazione, rivela il saggio di Avagliano e Palmieri, iniziò la fase dell’organizzazione del fascismo clandestino in città. Il primo gruppo ad agire, nato già dopo il 25 luglio, faceva capo ad Antonio De Pascale e Nando di Nardo, dotato di una radio clandestina collegata con stazioni del Nord e con il governo di Salò.
A metà dicembre, arrivò in città da Cosenza il prìncipe Cesare Pignatelli, incaricato dal governo del redivivo Mussolini di svolgere attività di intelligence e stringere rapporti col gruppo di De Pascale e di Nardo. In breve tempo Pignatelli stabilì contatti anche con i fascisti di altri centri campani, come Castellamare di Stabia, dove il gruppo locale organizzò campi di atterraggio per le spie della Rsi sui monti Lattari.
Tra le operazioni più clamorose progettate dall’organizzazione denominata Guardie ai Labari di Pignatelli, ma mai realizzate, c’era il rapimento di Benedetto Croce nella sua villa di Sorrento.
In altre zone della Campania, invece, la resistenza fascista ebbe carattere più spontaneo e meno organizzato. A Salerno le forze dell’ordine segnalarono l’esistenza di un nucleo fascista composto in prevalenza da giovanissimi. A Sala Consilina si costituì un piccolo gruppo clandestino di cinque ragazzi, tra i quali Gisberto Cafaro. «La notizia dell’armistizio mi provocò rabbia e vergogna», racconterà anni dopo. Talvolta invece furono singoli personaggi ad agire in clandestinità, come il marchese Marino de Lieto, che nel casertano e nel napoletano condusse una vera e propria guerra privata contro gli angloamericani, sabotando ponti e apprestamenti militari.
Durante l’inverno del 1944-45 la difficile situazione economica e sociale dell’Italia meridionale, aggravata dall’inverno, ebbe l’effetto di accrescere il malcontento della popolazione e le critiche verso il governo Bonomi e gli Alleati. Ma ad acuire il malessere fu soprattutto l’emanazione di un bando di presentazione alle armi per i giovani delle classi dal 1914 al primo scaglione del 1924, pubblicato sui giornali il 23 novembre 1944, che venne accolto con ostilità, manifestazioni di piazza e qualche autentico moto di insurrezione. A trarre vantaggio da questa situazione fu la propaganda fascista.
A Napoli, raccontano Avagliano e Palmieri, la rivolta ebbe il suo apice tra il 16 e il 20 dicembre, quando molti studenti universitari manifestarono contro la chiamata alle armi inneggiando a Mussolini e alla Rsi, facendo sorgere, come si legge in una relazione del prefetto, il sospetto che «l’agitazione degli studenti, camuffata come protesta contro il richiamo alle armi, fosse invece fomentata per fini politici, da forze reazionarie»
Al Nord, poi, tra i militari che aderirono a Salò, osservano Avagliano e Palmieri, vi furono anche numerosi meridionali, compresi diversi campani, e per loro una delle motivazioni ideali fu la volontà di liberazione della terra d’origine dagli invasori o la vendetta contro gli Alleati per il bombardamento delle loro città.
Insomma, un saggio da leggere, che narra pagine di storia italiana (e campana) davvero misconosciute.