di Francesco Gargiulo
Io il gol di Marco Baroni me lo ricordo.
Non avevo 8 anni, ma lo ricordo benissimo.
Svettó di testa in mezzo alla difesa laziale e la mise dentro.
Apoteosi. Attimi lunghissimi di estasi.
Mio padre mi abbracció, mia madre sorrideva senza un senso preciso.
Presi la mia trombetta e uscì fuori al balcone. La feci suonare. Fuori il caos ordinato. Succedeva di tutto.
Percepivo la felicità. Percepivo di essere unica cosa con tutto quello che, giù, sventolava e urlava a festa.
Non ancora percepivo la passione; non avevo l’età per capirne i contorni di complessità.
Ma più di tutto capivo che Napoli – e quindi il Napoli – mi correvano inesorabilmente e irreparabilmente nelle vene.
E fu poesia e prosa. E fu storia.
33 anni dopo.
Raspadori. Sinistro al volo. Da quel lato dove un colombiano rubato ai tuffi si contorceva in prossemica speranza di ciò che non sarebbe stato più.
Con gli anni ho imparato a governare quella passione, a riconoscerla. Da napoletano so che è impossibile regolamentare Napoli – e quindi il Napoli – che ti scorre dentro.
Devi lasciare che faccia il suo corso, che ti travolga annebbiandoti le capacità cognitive. Che si impossessi di te.
E oggi a 40 da padre di famiglia lascerò che tutto accada passivamente. Mi lascerò travolgere gustandomi ogni singolo attimo.
Guarderò mio figlio vestito di rigoroso completino azzurro e si, probabilmente piangerò.
Idealmente si chiuderà quel cerchio aperto 33 anni fa.
Io.
Napoli.
Il Napoli.
Essere un’unica cosa.